Forse questo tema ottiene il paradossale effetto di rassicurarci. Sembra che esso possa riguardare direttamente solo chi è obbligato a fare uso di psicofarmaci, chi si droga o chi beve in misura eccessiva; forse nessuno di questi tre temi ci tocca personalmente in maniera massiccia, sono questioni che riguardano altri, amici, pazienti, conoscenti…
Quando sussistono problemi legati alla dipendenza dalle più diverse sostanze può capitare che si “rimproveri” alle persone di non essere capaci di instaurare e di mantenere rapporti continuativi, basati su fiducia e reciprocità, si può pensare che non siano assolutamente capaci di comprensione per tutti i sacrifici che facciamo per cercare di aiutarli o di capirli.
Al contrario, spesso si verifica che i legami siano contrassegnati dalla disperazione e dall’urgenza del bisogno, bisogno che trasforma l’altro in una sorta di fonte di approvvigionamento senza fine e lo rende invisibile come soggetto.
Queste condizioni così apertamente patologiche, però, permettono forse di vedere meglio qualcosa che non è di esclusiva proprietà di tossicomani, alcolisti o di chi fa uso eccessivo di farmaci psicotropi. Esiste sempre per tutti, in altre parole, il rischio di consumare, ossia di distruggere, le relazioni che si instaurano, anche quando ci si ritiene normalmente sani ed integrati nella società.
Stiamo facendo riferimento a situazioni che implicano la dipendenza da sostanze, ma il problema della dipendenza in senso generale è probabilmente l’aspetto più delicato e difficile da gestire all’interno di qualsiasi rapporto, acquisizione che prevede un lungo cammino di maturazione. Questo “cammino” ha un suo momento particolarmente importante nella prima infanzia, quando il piccolo essere umano è davvero totalmente dipendente da chi si prende cura di lui. In tale condizione, come è ovvio, molto forte è l’intensità emotiva attivata ed altrettanto “forti” saranno le soluzioni trovate, ossia tenderanno ad essere mantenute con una grande costanza per tutta la successiva esistenza.
Il bambino si ritrova nella difficile situazione di amare incommensurabilmente quella che è la fonte della sua sopravvivenza fisica e della sua vita affettiva; ci sono, però, circostanze nelle quali questo amore è costretto a cambiare di segno, diventa qualche cosa di negativo, di aggressivo, di distruttivo.
È difficile per noi capirlo ora che siamo adulti, figuriamoci quindi per il bambino alle prese con questa “assurda” ambivalenza emotiva che rimarrà, come si diceva, caratteristica costante di tutte le altre relazioni della sua, della nostra, vita.
In genere si è soliti affermare che compito della madre è quello di essere “sufficientemente buona”. Cosa vuoi dire? Può significare molte cose, ad esempio che la madre deve essere, e di fatto è, capace di instaurare una relazione affettiva con il bambino.
Una mamma “sufficientemente buona”,secondo Winnicott, o una madre che abbia una buona capacità di “reverie”, per dirla con Bion, è una madre che accetta dentro di sè quello che il bambino stesso frequentemente le mette dentro, non essendo egli capace di sopportare dolori, paure, tensioni, aggressività, intolleranza o quant’altro.
E’ una madre che, come quasi tutte le madri del mondo, capisce il figlio; può accorgersi che il bambino è spaventato da qualcosa cui non sa dare un nome, che in quel momento è arrabbiato con lei perchè nessuno riesce a sollevano dalla sua pena, ma può riuscire ugualmente a tollerare tutto questo (compresi i suoi stessi sentimenti di frustrazione, impotenza, rabbia, ecc.) in modo da produrre una risposta rassicurante e rincuorante. Il bambino potrà sapere, così, che le persone di cui egli ha bisogno per vivere riescono a sopravvivere al suo odio e al suo disprezzo, che i suoi sentimenti negativi non lo sono poi così tanto, che al male può esserci rimedio.
Per meglio comprendere, possiamo immaginarci un bimbo che è a letto, è solo, ha fame, la mamma non arriva subito, è sopraffatto da una serie di pensieri e paure alle quali non riesce (legittimamente e giustamente perchè è … piccolo) a dare un significato “mentale o simbolico”.
In questa situazione, il dolore rischia di invadere e distruggere la sua mente. Il bambino sperimenta, impotente, la paura e il pericolo di morire, di rimanere annientato.
A questo punto la madre giungendo – per così dire – sul “luogo del delitto”, è investita da questi sentimenti e da queste paure che il bambino getta fuori di sè.
Se ciò non susciterà in lei il ricordo insopportabile di un’analoga e terribile esperienza, sarà in grado di accogliere dentro di sè paura e lacrime e riuscirà a porre tali esperienze emotive, a differenza del suo bambino, all’interno di una mente (la sua) più ampia e popolata, capace di vivere quel dolore come non assoluto e distruttivo. Questo le permetterà di restituire al figlio i suoi stessi sentimenti in una forma meno minacciosa e più tollerabile.
Non solo: con l’andare del tempo, il bambino imparerà a svolgere in proprio questo tipo di elaborazione della sofferenza: dalla madre che ha riceverà, così, oltre al latte, la capacità di formare simboli per interpretare e comprendere ciò che vive.
Se la madre, invece, trova insopportabile l’insieme delle emozioni che le vengono veicolate, restituirà inalterato il dolore che ha ricevuto. Il bambino si percepirà rifiutato, portatore di un’identità vergognosa, si sentirà realmente come aveva paura di essere, davvero solo.
Tutto il male, il dolore che sperimenta è esclusivamente dentro di lui, nessuno lo capisce e nessuno può mettervi rimedio. Forse è proprio lui ad essere “sbagliato” dacché prova cose cattive che fanno stare male, deludono e feriscono le persone che lo circondano. Proprio non riesce, come gli altri, ad essere un bravo bambino per la sua mamma e il suo papà; per loro è solo un peso, visto che chiede cose impossibili e che producono ulteriore sofferenza. Diventa persino concreta la prospettiva di morire. Oppure può nascere, all’interno della mente, un’immagine per cui le relazioni umane, affettive, sociali, emotive non hanno la prospettiva di evolvere: se l’altro non ci capisce immediatamente non c’è più scampo si tratta di un soggetto da distruggere.
Più generalmente, ogni contatto è da temersi e sfuggirsi, al fine di non incorrere nell’esperienza temuta e terrifica di un insopportabile rifiuto.
Nell’impossibilità di affidarsi agli altri e alla realtà per la propria felicità, si può cercare di dare vita ad una condizione nella quale si immagina di non aver bisogno di niente e di nessuno. Si può tentare, in altre parole, di trasformare tutto se stessi unicamente in un rifugio, una nicchia in cui trovare riparo, mondo alternativo al mondo dove poter abitare, dacché nel mondo c’è solo abbandono e distruzione.
Ovviamente, è necessario compiere passi precisi per dare concretezza e consistenza di verità a questa illusione. Diventa necessario, ad esempio, porsi empaticamente lontano dagli altri, attraverso il disprezzo, la svalutazione od un costante atteggiamento aggressivo. L’altro, infatti, con la sua esistenza separata, continua a testimoniare che non tutto è posseduto in modo diretto e personale; c’è comunque qualche cosa che manca, qualche cosa su cui non si ha controllo alcuno e questo qualche cosa, nonostante ogni sforzo, in un momento non prevedibile, potrebbe apparire importante, desiderabile, persino essenziale.
Sulla scorta di tale doloroso riconoscimento, si corre il rischio di venire strappati bruscamente al proprio eterno, perfetto presente per essere riconsegnati all’angoscia del tempo, all’intollerabilità delle personali emozioni al peso del desiderio e del bisogno.
L’altro si cerca, o si usa, allora, solo nella misura in cui può mantenere il personale senso di autonomia e indipendenza assoluta; si ricorre alla sua vita per ciò di cui si ha bisogno: non sentire la solitudine, la fragilità, la paura di sbagliare…
I rapporti nascondono a malapena il volto della rapina e si istituzionalizzano, vengono contenuti in rigidi schemi, in binari prestabiliti, dove tutto è previsto e calcolato al fine di evitare ogni contatto più prossimo e diretto che riaprirebbe alla pena della separazione, del limite e della mancanza.
Così recita una poesia di Dylan Thomas:
“Nessuna idea può turbare la mia insana condotta
Né rimuovere la dura scorza del mio spirito
Non mi ferisci, la tua mano non può indurmi a ricordare e a essere triste.
(…)
Nessun amore può forare
La spessa corazza di cuoio,
La dura crosta arrovesciabile
Che nasconde il fiore al profumo
E non mostra al frutto il sapore;
Nessuna onda può pettinare il mare
E incanalarsi in saldo sentiero.
Ecco l’idea che viene
Come un uccello nella sua leggerezza,
Sulle vele delle esili ali
bianche per l’acqua sollevata,
Vieni, stai per perdere la tua freschezza.
Vuoi scivolare da te nella rete,
o devo trascinarti
nella mia esotica compostezza?”
E quando l’esotica compostezza diventa fatica troppo dura, quando la realtà preme per essere riconosciuta, sia quella degli altri che quella del proprio mondo interno che vuole vivere, si può ricorrere anche all’aiuto di qualche sostanza per sorreggere quel sistema mentale che sembra garantire, lui solo, di potersi sentire in ogni momento un’anima tutta intera e splendente.
Sempre più necessario diventa chiudersi in se stessi, ma né le sostanze, né gli espedienti di volta in volta trovati, riescono ad arginare un crescente senso di inquietudine rispetto alla consapevolezza di essersi imprigionati da sè in un mondo incantato, troppo fragile per reggere l’impatto dell’esperienza reale.
In “Lutto e melanconia” Freud ha modo di osservare che per guarire dalla depressione è necessario elaborare il lutto, ossia sentire e vivere tutti i sentimenti che si provano nella particolare circostanza contrassegnata dalla perdita di una persona cara. Sembra che una cosa analoga possa essere detta anche per la situazione che stiamo esaminando. Di fronte a stati d’animo od esperienze particolarmente dolorose, si può temere che la mente non sia in grado di conservarsi intera e funzionante; se si fugge in un mondo di illusione pensato come privo di sofferenza, la paura di fatto non è superata, ma continua, anzi, ad operare, chiedendo l’impiego di difese sempre più massicce. La corsa a ritroso si carica di affanno ed angosciosa diventa la sensazione di non farcela.
L’uscita da questo circolo vizioso, progressivamente sempre più incarcerante, coincide con un cambio di direzione, con la decisione, cioè, di non negare più ciò che effettivamente accade, per quanto drammatico possa sembrare. La piccola o grande accettazione dei fatti concreti e dei nostri sentimenti nei loro confronti non consente, certo, di eliminare il dolore, come si era pensato con la costruzione di un mondo alternativo, ma permette di continuare a vivere la propria vita e di incontrare gli altri per quello che sono. Per quanto limitato e terreno ciò possa sembrare, è però qualche cosa di reale, a differenza della “indivisa felicità” confezionata nel laboratorio della fantasia, priva di consistenza, miraggio che subito si dissolve e condanna, di fatto, ad una costante solitudine.