Hanno iniziato a chiuderle molto prima del Covid che poi gli ha dato il colpo di grazia. Le nostre sale amatissime, le sale cinematografiche in cui siamo cresciuti guardando incantati, come dice Fellini, “immensi faccioni, labbroni, occhioni, che vivono e respirano in un’altra, irraggiungibile dimensione, fantastica e nello stesso tempo reale, come quella del sogno”. Lui le amava a tal punto, le sale, che da bambino aveva battezzato i quattro angoli del suo lettino a casa della nonna con i nomi dei cinema di Rimini: Fulgor, Savoia, Sultano e Opera Nazionale Dopolavoro. Una delle cose più belle che mi ha portato il mio libro “Al cinema con lo psicoanalista” è un’email da un signore (il caso vuole proprio di Genova, si chiama Carlo Lavagnino) che a un certo punto dice: “sfogliando le sue pagine sono riuscito a percepire un amore per la sala che condivido pienamente […] Le sembrerà una cosa secondaria rispetto agli argomenti importanti trattati nel libro, ma a un suo (quasi) coetaneo, l’amore per la sala ha riempito la vita”. E conclude: “In questo periodo occorre tenere duro, occorre andare al cinema anche nelle piccole sale che magari proiettano lo stesso film che potresti vedere comodamente in poltrona a casa sul maxi schermo. Forse tra poco ci
saranno solo gli uomini-cinema come in Fahrenheit 451 del meraviglioso Truffaut erano presenti gli uomini libro: io sarò tra quelli”. “Può star certo”, gli ho risposto, “che sarò con lei”.
Noi che amiamo le sale abbiamo conosciuto il piacere fisico dei cinema d’essai aperti la mattina (ci andavamo bigiando la scuola, a Milano c’erano il Rubino e l’Orchidea, nomi da far invidia al quadrumvirato delle sale felliniane); abbiamo guardato ipnotizzati il fascio di luce che usciva dalla cabina del proiezionista (con le volute di fumo blu quando nei cinema si poteva fumare); abbiamo fatto la coda a Parigi e a New York per vedere il film di mezzanotte proiettato in un cinema microscopico; abbiamo comprato i biglietti per le nostre amiche, dandoci appuntamento “un quarto d’ora prima” fuori dall’Astra, dal Mignon o dall’Arlecchino; abbiamo guardato i film con tutto il corpo, rannicchiati nelle poltroncine minuscole del Centrale o stravaccati sulle grandi poltrone del President, soli con la pellicola ma insieme a tutti gli altri, facendo shhh se qualcuno parlava durante i titoli di testa e facendo segno di spostarsi se già si alzava durante i titoli di coda. Sono sicuro che anche il signore di Genova ha amato Good by Dragoon Inn del meraviglioso Tsai Ming-liang. Un film struggente che racconta la storia di un decrepito cinema di Taipei, prossimo a chiudere per sempre i battenti, e dei suoi archetipici abitanti: il proiezionista, la cassiera zoppa, un turista giapponese in cerca di avventure.
Oggi il cinema è cambiato e con lui il suo pubblico. Il grande schermo si è rimpicciolito e il cinema, per citare ancora Fellini, è diventato un elettrodomestico, tra “la libreria e un portafiori”. Eppure nelle tristi sere di sale spente e televisioni accese, mentre di mese in mese spuntavano piattaforme come alberi fioriti carichi di film (Mubi, è la mia preferita), il cinema ci ha salvato ancora una volta, regalandoci serate irripetibili con Kurosawa e Sirk, Fassbinder e Renoir. Persino con qualche serie, che certo sta modificando il senso della visione, ma è giusto capire, senza pregiudizi, in che direzione.
La nostalgia delle sale rimane, come rimane la tristezza per le sale vuote, le sale che chiudono, ma il bisogno di cinema, la fame di cinema, non passerà mai. Il cinema è luce e buio, come la psiche, fatta di chiarori e oscurità, di forza e paura. Cinema e psiche son fatti della stessa sostanza: immagini e ricordi. Il cinema li trasforma in storie che rimangono sullo schermo per un momento e poi diventano nostre. È uno scambio: i personaggi ci raccontano le loro vite così noi possiamo prestar loro le nostre emozioni.
In un momento di dolore collettivo, di elaborazione necessaria, l’idea di affidarci alla narrazione cinematografica è in sé terapeutica. Raccontiamo storie per vivere, diceva Joan Didion. Grazie alle storie costruiamo la nostra identità. Noi stessi siamo il racconto di una storia. Le storie curano: abituandoci alla capacita immaginativa e alla convivenza con la memoria, danno una dimora alla nostra vita.
Il mio lavoro, che è ascoltare le storie degli altri, mi ha insegnato che una mente che incontra una storia non è più la stessa. Ma anche quando una storia incontra una mente non è più la stessa. Il cinema è una stanza con due ingressi: i racconti entrano nella vita dello spettatore e la vita dello spettatore entra nei racconti. Questo è il mio modo di guardare un film. Ed è anche una delle più belle dichiarazioni d’amore per il cinema, quella di Woody Allen con La rosa purpurea del Cairo: attori che escono dallo schermo e spettatori che vi entrano, innamorandosi o detestandosi.
Oliver Sacks diceva che per essere noi stessi abbiamo bisogno di un racconto interiore continuo, che forse è la storia della nostra vita. Il cinema, è capace di darci questo racconto. Perché un film è metà di chi lo gira e metà di chi lo guarda. Godard era ancora più drastico: per lui quando arriva sullo schermo il film è già morto; è lo sguardo dello spettatore a insufflargli la vita. Farlo tutti insieme in una sala è il rito del cinema, il rito della luce e del buio, proprio come nella storia mitologica dell’amore di Psiche per Eros. I miei “Psycho” sul venerdi di Repubblica, ancor più in tempi di sale chiuse, sono la mia minuscola offerta al mito di Eros e di Psiche, il mio settimanale gesto d’amore per il cinema.
Vittorio Lingiardi è psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia dinamica presso La Sapienza Università di Roma.