Il pensiero psicoanalitico di tre grandi terapeuti per confrontarsi con il sentimento della solitudine interiore o generato dall’esterno.
È il simbolo di questo periodo. La pandemia ci costringe a confrontarci con questo sentimento: la solitudine del confinamento domestico, del distanziamento sociale, della abolizione delle frequentazioni amicali e familiari, delle persone ricoverate, dei ragazzi in Dad, degli anziani isolati in casa e nelle case di riposo.
Da dove nasce questo stato d’animo? Cosa fa sì che per alcuni diventi una risorsa mentre per altri sfoci in un impoverimento progressivo e nell’isolamento, un ritiro dal mondo delle relazioni?
Melanie Klein psicoanalista austriaca-britannica ha scritto un saggio a riguardo che si intitola “Sul senso di solitudine”.
Descrive la solitudine, intesa come solitudine interiore, cioè il senso di essere solo indipendentemente dalle circostanze esterne, come il risultato dell’aspirazione che tutti nutrono per una condizione irraggiungibile, la nostalgia insoddisfatta per una comprensione che avviene senza l’uso di parole.
Questi sentimenti nascono da dal sentimento di aver subito una perdita irreparabile e rappresentano il desiderio di tornare alla prima relazione con la madre, in cui c’era una comprensione senza l’uso di parole. La collega con un bisogno di armonia, equilibrio e pace interiore nella personalità. Quando tutto ciò non è raggiunto permane un sentimento di solitudine.
Il sentimento di non poter mai più essere un neonato e provare le gratificazioni di quell’età dell’infanzia equivale a un lutto; le esperienze successive non potranno mai soddisfare del tutto la richiesta di completezza, di interezza e di una totale comprensione.
Tuttavia, conservare dentro di sè il vissuto appagante di queste esperienze precoci, pur non riproducibile pienamente, pone le basi per la capacità di dare e di ricevere amore e comprensione.
È facilitata la tolleranza alle frustrazioni e la speranza di essere felici. È presente la fiducia di essere compresi. Queste capacità stimolano la gratitudine, che a sua volta implica il desiderio di restituire generosamente ciò che di buono si è ricevuto.
Inoltre facilita la tolleranza, definito come un Super Io più indulgente, consentendo una maggiore capacità di sopportare i difetti delle persone amate senza per questo deteriorare il proprio rapporto con essi. La maggiore indulgenza avviene anche per se stessi e i propri impulsi aggressivi e i loro effetti facendo sì che l’aggressività l’odio e l’invidia siano sentiti come meno pericolosi e distruttivi.
Stimola la generosità, qualità, secondo la Klein necessaria per la creatività sia infantile che dell’adulto e tutto ciò contrasta la solitudine. La possibilità ed il bisogno di stare “soli nella propria mente” per fantasticare e pensare consente la creatività e fa della solitudine un momento appagante. La differenza tra persona creativa e visionaria è però la capacità “elastica” di uscire dalla propria mente per riconnettersi con gli altri.
Se le esperienze precoci non hanno permesso lo stabilirsi di una fiducia di fondo nelle proprie capacità affettive e degli altri diventa prevalente il timore dell’altro, la paura che ci danneggi. Sono le cosiddette “angosce persecutorie” che fanno sì che la vicinanza degli altri sia percepita in modo intrusivo e pericoloso; viene meno la possibilità di riconoscere e tollerare gli aspetti affettivi delle relazioni aumentando enormemente il senso di solitudine che può arrivare a forme di isolamento estremo. Le angosce depressive invece sono correlate a vissuti di lutto e di perdita e sfiducia nelle possibilità di recupero.
La pandemia ha scatenato vissuti collettivi di angosce persecutorie: l’altro è diventato un pericolo di contagio e malattia ed è diventato necessario il distanziamento e l’isolamento ma ancora più gravi sono le angosce depressive legate alla perdita – del lavoro, delle abitudini, dei propri cari – che sfociano nell incapacità a pensare il futuro e alla perdita di una continuità identitaria.
Si arriva a sentirsi abbandonati a se stessi con la propria infelicità portando ad un circolo vizioso per cui la paura e la sfiducia distruggono progressivamente la possibilità di tollerare l’incertezza, di aprirsi a soluzioni creative e sviluppare soluzioni che potrebbero neutralizzare la solitudine e il senso di impotenza incrementando invece la rabbia e la frustrazione.
Lo stimolo a sentirsi indipendenti per non dover avere bisogno degli altri, nasce spesso da bisogno di contrastare la solitudine e per sentirsi meno vulnerabili.
Per contro invece una iper-dipendenza dagli altri può essere utilizzata in modo eccessivo e difensivo proprio per il timore di non sperimentare mai la separazione e l’isolamento.
Le varie tappe di crescita di un individuo sono anch’esse portatrici di un senso di solitudine: il passaggio dall’infanzia all’adolescenza comporta la perdita dell’idealizzazione dei genitori e del senso di onnipotenza; le persone anziane, per cercare di evitare e di negare il senso di solitudine e le frustrazioni del presente possono perdersi nel pensiero del passato e idealizzarlo, proprio come i giovani per ragioni simili possono idealizzare il futuro.
Anche il desiderio di successo trova radice nel contrasto al senso di solitudine e se utilizzato in maniera eccessiva denota una scarsa fiducia in se stessi.
Paradossalmente negare la solitudine, come può avvenire in forme di ottimismo che rasentano la maniacalità, senza sperimentarla dolorosamente, impedisce a vivere il desiderio di creare connessioni con gli altri.
Per lo psicoanalista Donald Winnicott la capacità di essere soli, è uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo.
Questa capacità si determina a partire dalla presenza di un ambiente protettivo nelle prime fasi di vita, costituito da una madre totalmente disponibile verso le necessità del bambino grazie all’identificazione con esso ( che Winnicott chiama preoccupazione materna primaria) che fa sì che il bambino possa fare esperienza di solitudine nella certezza di essere circondato dalla presenza materna che può quindi smettere di verificare. Questa fiducia consente al bambino di staccarsi dall’ambiente, di rilassarsi immergersi in se stesso e quindi sviluppare la capacità di giocare.
Nasce quindi da un paradosso, sentirsi soli nella fiducia che l’altro c’è. Soltanto una ripetuta esperienza di questo tipo consente lo sviluppo di capacità creative ed è alla base di un senso di autenticità nella vita.
Ed è questo, secondo Winnicott uno degli scopi fondamentali della psicoanalisi, consentire una progressiva capacità di sperimentare la solitudine non come come sentimento doloroso che si associa a stati interni di isolamento ed abbandono ma come spazio di introspezione ed espressione della propria soggettività e creatività personale.
La” solitudine addomesticata”, efficace definizione dello psicoanalista Jean Michel Quinodoz diventa quindi stimolo alla conoscenza di sé e degli altri, e richiamo a comunicare con gli altri nel modo più autentico.
Crediti immagine: Ig @Paul Blow