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La resilienza del dibattito sulla resilienza: le frontiere neurobiologiche

Si narra che intorno al XV secolo, Ashikaga Yoshimasa, ottavo shogun dello shogunato Ashikaga, ruppe un giorno la propria tazza di tè preferita. Decise, quindi, di inviarla in Cina per farla riparare, ma le riparazioni all’epoca erano poco estetiche e poco funzionali per via dell’utilizzo di legature metalliche. Il danno alla tazza sembrava ormai irreparabile, ma Ashikaga decise di affidare la riparazione ad alcuni artigiani giapponesi, i quali sorpresi dalla sua tenacia nel riavere la sua amata tazza, decisero di provare a trasformarla in gioiello riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro. 

Kintsugi: metafora della resilienza

Secondo questa leggenda nacque l’antica arte giapponese del kintsugi (金継ぎ), letteralmente oro (“kin”) e riunire, riparare, ricongiunzione (“tsugi”), l’arte di abbracciare il danno, di non vergognarsi delle ferite. 

Il kintsugi dà vita a vere e proprie opere d’arte, sempre diverse, che raccontano la loro particolare trama e bellezza ottenute dall’unicità di quelle crepe che si creano quando l’oggetto si rompe, come le ferite che lasciano tracce diverse su ognuno di noi.

È l’essenza della resilienza. Riuscire ad acquisire sempre più la capacità ad affrontare costruttivamente gli eventi traumatici, di crescere attraverso le proprie esperienze dolorose, di valorizzarle, rendendosi conto che sono proprio queste che rendono ogni persona unica, preziosa.

Che cos’è la resilienza?

Il termine resilienza deriva dal latino “resalio”, iterativo di salio, che significa saltare indietro, rimbalzare. Verbo che si associa ad un’immagine precisa: saltare su una barca capovolta dal mare alla ricerca della salvezza.

La definizione di resilienza data dalla American Psychological Association è “il processo di buon adattamento di fronte alle avversità, ai traumi, alle tragedie, alle minacce o anche a fonti significative di minaccia (APA, 2010).

La resilienza non è quindi una abilità, ma un processo dinamico, un costrutto multidimensionale frutto dell’interazione tra fattori genetici, epigenetici, psicologici, neurochimici e legati allo sviluppo, che consente di far fronte allo stress e alle avversità mantenendo un normale funzionamento psicologico e fisico.

Essere resilienti non vuol dire essere invulnerabili alla sofferenza e alle emozioni. Un individuo resiliente è un individuo comune dotato di più qualità, ma che può andare incontro anche a rotture di resilienza e a periodi di depressione. La resilienza non è una abilità innata che permane per tutto l’arco della vita, nonostante alcuni individui partano già alla nascita con una predisposizione ad essa, ma è il risultato di un continuo processo di apprendimento, flessibilità e adattabilità alle sfide dell’ambiente. Gli individui resilienti hanno trovato in sé stessi, nelle relazioni umane, nei contesti di vita, gli elementi e la forza per superare le avversità.

I traumi sono ereditari?

All’inizio degli anni 2000 prende vita una nuova branca della biologia chiamata epigenomica.  Essa nasce dall’idea, sostenuta da sempre più biologi molecolari e genetisti, che un individuo possa trasmettere le esperienze di vita alle future generazioni. L’individuo non è la semplice sommatoria numerica dei propri geni, ma la loro espressione dipende da fattori ambientali.

Il microRna, ovvero minuscole frazioni di materiale genico, trasmette di generazione in generazione, non solo le informazioni per la costruzione di proteine, ma anche gli effetti di eventi che lasciano un segno, attraverso un processo in cui un trauma che è accaduto alla prima generazione viene trasmesso alla seconda e terza generazione (Brain Research Institute, Università di Zurigo).

In pratica, i traumi vissuti durante la vita sono in grado di alterare le informazioni molecolari tramandate trasmettendo i difetti attraverso i gameti. La ricerca, pubblicata sulle pagine della rivista Nature Neuroscience, spiega come particolari patologie, come il disordine bipolare, si ereditino da padre in figlio.

Sempre più studi su casi clinici delle vittime dell’Olocausto, delle prigionie di guerra, delle carestie, dei disastri naturali recenti come il terremoto dell’Aquila del 2009, e ancora, del disastro nucleare di Fukushima del 2011 riportano una vasta gamma di sintomi affettivi ed emotivi trasmessi nel corso delle generazioni quali sfiducia nel mondo, compromissione della funzione genitoriale, dolore cronico, incapacità di comunicare i sentimenti, paura costante del pericolo, pressione per il rendimento scolastico, ansia da separazione e iperprotettività all’interno del sistema familiare.

Anche l’attuale pandemia da Covid-19 oltre ad avere innescato una gravissima crisi economica globale facendo tremare anche gli assetti socio-politici-economici più solidi, sta seriamente minando la salute mentale di tutti, in particolar modo nei giovani tra i 18 e 24 anni che sono meno vulnerabili al virus, ma più esposti alle sue conseguenze future.

L’aspetto positivo è che alla stessa maniera in cui i vissuti traumatici possono essere trasmessi transgenerazionalmente, così può esserlo anche la capacità di fronteggiare e superare il trauma, con lo sviluppo di meccanismi di resilienza da parte delle generazioni successive.

Approcci neuroscientifici alla resilienza

Le Neuroscienze si sono concentrate sulla “funzione plastica del cervello” capace di sostenere il soggetto traumatizzato grazie alla riattivazione funzionale dei circuiti neuronali del benessere (Le Doux, 1996) e sulla complessa neurobiologia della paura (i processi neurali, endocrini, genetici e molecolari che sostengono la risposta alla paura e permettono una modulazione dello stress).

Secondo il neuroscienziato Richard J. Davidson, la resilienza è caratterizzata da una maggiore attivazione nella corteccia prefrontale sinistra rispetto alla destra. Una mancanza di resilienza deriva da un’attivazione più elevata nella corteccia prefrontale destra.

La corteccia prefrontale è nota per essere la sede delle attività cognitive più elevate come il giudizio, la pianificazione e altre funzioni esecutive. Grazie alle sue ricerche, Davidson ha dimostrato che le persone con una minore attivazione in certe zone della corteccia prefrontale manifestano un’attività dell’amigdala di maggior durata dopo un’esperienza emotiva negativa, cioè fanno fatica a liberarsi di un’emozione negativa dopo che è stata scatenata. L’attività nella corteccia prefrontale sinistra abbrevia il periodo di attivazione dell’amigdala, consentendo al cervello di riprendersi da un’esperienza scioccante.

Nei primi mesi del 2016, la rivista Nature ha pubblicato uno studio sulla neurobiologia della resilienza. In esso si spiega che questa capacità è collegata a precise aree cerebrali: la neocorteccia cerebrale e, a livello subcorticale, il complesso amigdaloideo, l’ippocampo e il locus coeruleus.

Il risultato più interessante è certamente l’attività a livello ormonale e dei neurotrasmettitori, che favorisce oppure ostacola la nostra capacità di essere resilienti.

Nel giugno 2020 Ruth Feldman pubblica sulla rivista World Psychiatry un interessante articolo sulla resilienza. L’autrice propone un modello complesso, diverso dai precedenti costruiti sulla neurobiologia della paura e sul perseguimento della felicità, che invece si basa sulla neurobiologia dell’affiliazione. La Feldman ritiene fattori fondamentali per modulare lo stress, o addirittura per migliorarsi di fronte al trauma i sistemi che sostengono la nostra capacità di formare legami affiliativi, far parte dei gruppi sociali, usare le relazioni affettive.

Secondo tale modello il sistema nervoso dell’uomo, in quanto mammifero, matura grazie alla relazione di accudimento madre-bambino compresi tutti i processi neurobiologici che favoriscono la resilienza. La dipendenza iniziale del bambino dai suoi genitori ha un impatto fondamentale sulla struttura e sulle funzioni cerebrali che favoriscono la resilienza. 

Ruth Feldman delinea tre componenti centrali della neurobiologia dell’affiliazione: il sistema dell’ossitocina, il cervello affiliativo e la sincronia bio-comportamentale.

In generale, il ruolo dell’ossitocina nella resilienza è associato al suo coinvolgimento nella plasticità neurale, nella socialità e nell’immunità.

Il cosiddetto cervello affiliativo indica invece il sistema cerebrale che permette all’uomo di costruire e mantenere relazioni affettive e che è modellato nel cervello del bambino attraverso disposizioni materne durante i primi periodi sensibili. Viene modulato dall’azione dell’ossitocina (che promuove la motivazione e riduce l’evitamento sociale) e da altri neurotrasmettitori quali dopamina e GABA, comprende network sottocorticali e corticali coinvolti nell’empatia, la simulazione, la mentalizzazione, la regolazione delle emozioni e, complessivamente, l’attaccamento. Il cervello dei genitori modella dunque la modalità sociale del bambino e predice la regolazione delle emozioni, la risposta allo stress e la formazione di sintomi almeno nei primi sette anni di vita e, nel lungo termine, le modalità affiliative nell’adolescenza. 

Per quanto riguarda infine la sincronia bio-comportamentale, meccanismo centrale nella socialità umana e nell’affiliazione, essa è definita come “il coordinamento di segnali biologici e comportamentali tra due persone durante momenti di contatto sociale” e descrive il modo in cui il cervello maturo del genitore regola il cervello immaturo del bambino e lo sintonizza alla vita sociale.

Molti studi mostrano l’importanza del coordinamento non verbale tra adulto e bambino in momenti di socializzazione particolari, per la maturazione di una coordinazione biologica; ad esempio solo in questi momenti la sincronia del ritmo cardiaco tra madre e bambino permette il rilascio di ossitocina e la sincronia tra ritmi cerebrali. Una buona sincronia è alla base di una buona risposta allo stress, migliori funzioni immunitarie e maggiore aritmia del seno respiratorio, mettendo in luce quanto complessivamente il meccanismo che coordina i comportamenti sociali è implicato anche nella riduzione dello stress e nell’aumento della resilienza. Il legame tra sincronia biologica e comportamentale inizia nell’utero, incorporando i ritmi biologici del feto in un dialogo sociale che trasforma il biologico in relazionale e l’intra-individuale in interpersonale.

Secondo l’autrice, la resilienza è probabilmente il fine ultimo della maturità umana e rappresenta il più importante obiettivo della scienza della prevenzione. Le persone che sono in grado di affrontare le difficoltà della vita con coraggio e perseveranza e di mantenere prospettive positive in condizioni difficili- afferma – godono di legami più intimi e di una più ampia cerchia di relazioni sociali, oltre ad essere maggiormente in grado di esprimere empatia e compassione per gli altri.

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