In occasione della quarantesima edizione del Premio Andersen per la letteratura infantile, dopo aver conversato a lungo con Barbara Schiaffino, direttrice della Rivista Andersen, mi sono trovata a sfogliare con attenzione stupefatta alcuni libri che si riferiscono ad una particolare categoria, a cui purtroppo noi adulti finiamo spesso col non dedicare troppa attenzione, ritenendoli – commettendo un errore – di esclusiva pertinenza del mondo dei bambini: mi riferisco agli albi illustrati.
Ho scoperto, così, quanta vicinanza vi sia tra due mondi – quello della letteratura per l’infanzia e quello della psicoanalisi infantile. Intanto, la tecnica della psicoanalisi infantile si fonda sul gioco, e il gioco che si struttura e si dipana in seduta tra il piccolo paziente e il suo analista ha per certo molte caratteristiche in comune con una storia, un racconto, una favola, gestiti – nel nostro caso – in proprio dalla coppia analitica.
Ripenso, allora, alle tante storie che raccontiamo i bambini ed io nella stanza d’analisi – storie che a volte partono da personaggi incontrati davvero, altre volte da piccole creature costruite con il pongo, da un aereoplanino di carta, o da favole che hanno letto o ascoltato narrare…da qualunque spunto si parta, nella stanza d’analisi si dà comunque l’avvio ad una costruzione unica, irripetibile e condivisa il cui senso è dare spazio, forma e nome a quel che ancora nome non ha, e che conduce i bambini da noi: l’angoscia, il dolore, la paura, in cui talvolta possono rimanere impigliati anche se – o forse proprio perché – così piccoli…
E la narrazione che ne scaturisce in seduta – quando autenticamente condivisa – può condurre ad un reale cambiamento psichico.
Ma non solo: lavorare con i bambini ci insegna qualcosa che ho ritrovato nelle storie che narrano l’infanzia e narrano per l’infanzia – cioè la capacità del bambino di osservare il mondo da prospettive inaspettate, di dilatare i confini della realtà, di utilizzare processi conoscitivi insoliti, e per l’adulto bizzarri.
Per questo, parliamo di “sguardo sovversivo” dei bambini: perché – in letteratura come nell’esperienza psicoterapeutica – emerge l’immagine dei bambini come straordinari ed enigmatici personaggi di frontiera, sempre pronti a varcare i confini definiti dagli adulti. Grazie ad un accesso al magico e al paradossale, accesso non filtrato – o meno filtrato – dalla razionalità del pensiero adulto.
Inoltre, chi scrive libri per bambini e coloro che i bambini li hanno in cura, mi sembrano accomunati dalla capacità di entrare in contatto con il proprio “pensiero bambino”, una sorta di “funzione bambina” che permette di oltrepassare quella frontiera che, altrimenti, costringerebbe nei limiti del funzionamento mentale adulto.
Ho letto che per dedicarsi a questa particolare letteratura bisogna rimanere “bambini per sempre”…del resto, per fare gli psicoanalisti infantili – sosteneva uno dei nostri maestri più amati, Donald Winnicott – è necessario abbandonare la poltrona e sedersi sul pavimento accanto al bambino! In particolare, sono proprio i libri illustrati per l’infanzia ad aver perfezionato in modo straordinario la funzione di superare i confini, traducendo le emozioni in modo immediato, attraverso la sintesi di immagini e parole, e mostrando una peculiare vocazione poetica, estetica, e in qualche modo filosofica….In questi libri, si
condensano visioni del mondo poetiche e domande esistenziali potenti ed insature.
Giocare con le storie che prendono vita in questi libri, credo permetta davvero ad un bambino – e a me, psicoanalista, quando mi trovo a sfogliarli – di accedere alla dimensione del sogno. Strumento per noi parte integrante, nel lavoro con i pazienti….
Sogno condiviso, perché la componente essenziale di questi libri sta nella lettura a due, cioè nel lavoro a due menti – quello dell’adulto che legge il testo e quello del bambino che quel testo e quelle immagini guarda, tocca e trasforma a modo suo. Mentre sfogliano, incantati, le pagine insieme.
Da questo gioco a due, non solo la mente del bambino, ma anche quella dell’adulto ne uscirà arricchita e trasformata.
Qualcosa di simile accade nel lavoro clinico: la psicoterapia è una storia che si scrive in due, perché non solo il paziente, ma anche il terapeuta entra nella stanza d’analisi in un modo, e ne esce in un altro. Trasformato dall’esperienza condivisa. Straordinaria, nei libri illustrati, è la sintesi tra immagini e testo scritto: la sensazione non è quella data da due forme di comunicazione che scorrono su binari paralleli – dove la parola spiega l’immagine, aggiungendo significato e ampliando la comprensione – quanto piuttosto si avverte una felice integrazione, in cui parole e immagini si intrecciano in un gioco polisemantico, non potendo vivere le une senza le altre.
Penso, allora, allo stupore di fronte al dispiegarsi delle immagini e delle parole sulla doppia facciata, e l’attesa emozionata del gesto di voltare pagina, in un libro dove la narrazione scorre anche attraverso la consistenza materica della carta, la scelta del colore, di una forma che invita all’esplorazione…viene davvero da pensare a questo tipo di libro come ad un organismo vivente, un formidabile alleato dell’immaginazione. Penso a quanto scriveva Italo Calvino ne “Le lezioni americane”: il racconto, la fiaba sono un “repertorio del potenziale, di ciò che non è, né è stato,
né forse sarà, ma che avrebbe potuto essere”.
Qualcosa di davvero difficile da realizzare, perché appartiene ad una forma poetica che necessita di sintesi e, insieme, di attenzione al profondo.
Si arriva, così, alla leggerezza e all’intensità che ho trovato in “ Murdo”, “Occhio ladro”, “Immagina”, “Io sono foglia”: davvero questi libri sono un parco giochi di carta, dove il bambino può esplorare e scoprire dimensioni simboliche e narrazioni
del mondo.
Vi racconto allora brevemente di questi quattro piccoli straordinari libri, partendo dalla narrazione complessa e densa di accadimenti di Murdo, per raggiungere in fondo quella essenziale e limpidamente poetica di Io sono foglia.
Murdo
Lo yeti è una creatura aliena, bizzarra, primitiva…soprattutto, lo yeti non esiste: è una figura terrificante, un mito creato dall’uomo per dare vita al terrificante Altro da Sé, a rappresentare tutta la sua paura per il diverso, lo straniero, l’inconoscibile…l’abominevole uomo delle nevi! E il bambino è, a sua volta, per molti versi, l’essenza stessa del diverso e dell’incomprensibile per l’essere umano adulto.
Il termine stesso “adulto” significa – etimologicamente e psicologicamente – “finito”, compiuto, “terminato”. La bellezza dell’infanzia è invece la bellezza dello
yeti Murdo: nella sua incompiutezza, nella sua radicale apertura, nel suo stare in bilico tra essere e non essere, tra Noi e l’Altro, tra il Qui e un Altrove.
L’infantile ha a che fare – come scriveva Freud – con il Perturbante, che riaffiora, riemerge – perché tutti noi siamo stati bambini – e ci mette in uno stato di incertezza e di inquietudine. Il nostro mondo adulto, allora, spesso cerca di non vedere queste caratteristiche del bambino e cerca, anzi, di trasformare i bambini il più rapidamente possibile in individui precisi, riconoscibili, coerenti, affidabili…insomma, adulti. Sottraendo loro anche troppo presto la qualità di esseri sospesi, in po’ alieni, un po’ Yeti, la loro natura cangiante di creature polimorfe, come 120 anni fa li aveva definiti Freud.
Ma per fortuna, i bambini fanno sentire la loro voce, e la letteratura infantile questa voce la ascolta e mirabilmente la riproduce e la traduce: se lo yeti-bambino non esiste, i suoi sogni certo non possono che essere impossibili…ma dichiarare un sogno impossibile, significa in realtà già farlo esistere, almeno in un’altra dimensione, quella dei desideri. E se l’inesistente piccolo yeti si dà il nome di Murdo, afferma il proprio desiderio di essere ammesso all’esistenza, rivendica il proprio diritto ad un’esistenza effettiva e affettiva….lo yeti è il bambino piccolo che, proprio perché è una creatura che ancora non è – cioè non è adulto – può essere quindi tutto il resto, e vivere di esperienze ed esplorazioni.
Occhio ladro
I bambini sono ladri, perché il loro sguardo sa catturare immagini e scompigliare il senso comune attribuito all’oggetto, per portarsi via significati nuovi, molteplici, bizzarri, che disorganizzano il pensiero altrimenti conforme alle regoli formali della percezione della realtà.
Utilizzando la “funzione bambina” del pensiero, i due autori – poetessa e fotografo – intrecciano i loro linguaggi e attraversano piazze, angoli e vie
cittadine, prati e rive di fiumi, generando trasformazioni che trasferiscono oggetti ordinari in dimensioni stra-ordinarie…Vediamo, allora, una strada di ciottoli diventare un bambino a cui la mamma apprensiva infila il golfino: perché la mente di un bambino può dotare una strada di raffreddori, e di un’anima;
O, ancora, un vecchio palo dell’alta tensione diventa un pentagramma disegnato nel cielo (quindi immagino che gli uccelli si poseranno sui fili,
diventando note musicali e scrivendo canzoni nell’aria…); due maniglie sono due sorelle speculari, che con lo stesso gesto aprono o chiudono le porte sull’Altro: due modi d’essere che appartengono a noi tutti: a tratti disponibili all’incontro, altre volte decisamente pronti di chiudere fuori
il mondo, tutto intero; l’erba gatta si trasforma in un’erba che del gatto forse ha anche il carattere, quando si fa capriccioso e lunatico: nasce, cresce, e quando gli adulti l’annoiano si allontana sulle sue zampette verdi stizzite; la luna, una creatura che fugge dalla gabbia dove il poeta vorrebbe imprigionarla, magari con bellissimi versi – quante volte abbiamo sentito celebrare la luna dai poeti! – ma stare chiusi, ci spiegano i bambini, bene non fa…; e se le cose incontrate possono essere così cangianti e possono condurci i altri luoghi, significando altro, allora anche i Lettori dell’ultima poesia non sono solo lettori di libri – ma anche di nuvole e fiumi. Perché questo fa lo sguardo ladro del bambino, che sovverte la realtà per come sembra essere data: un occhio ladro, curioso e profondo, capace di leggere il libro del mondo.
Immagina
Immagina è tutto frammenti: illustrazioni raccolte dall’autrice nel corso di una vita, accompagnate da piccole frasi, brevi lampi di luce scarabocchiati su
biglietti stropicciati e vecchie buste. Davvero, questo, l’elogio dell’Insaturità: le storie, qui, sono ancora tutte da inventare e costruire, in un processo – scrive l’autrice – per diventare noi stessi. Sembra davvero di leggere, in queste pagine ed in presa diretta, la sintesi del processo psicoanalitico!
Penso a quanto scriveva – sempre Calvino ne “Le lezioni americane”- a proposito della fiaba come contenitore e “catalogo di tutti i destini possibili”:
su tutto, vigila il principio della Molteplicità, della Leggerezza, dell’Insaturità…. Di fatto, sia nel lavoro clinico con i bambini – ma anche nel lavoro clinico con gli adulti – sia nella struttura del libro illustrato, le emozioni in gioco non sono già sature di significato: il libro, come la seduta, offre dei contenitori – recipienti di varia forma, dimensione e colore – che poi potranno essere variamente riempiti da ogni bambino, a seconda dei suoi particolari bisogni emotivi.
Leggendo Immagina, e incantandomi su ogni pagina, quando lo sguardo mi si è fermato su Lily, ho pensato: “Che bell’inizio di storia questo sarebbe, di ogni storia tra paziente e terapeuta!” Perché chi sceglie di fare questa professione, si augura di riuscire ad essere in qualche modo “un buon posto su cui l’altro si possa posare”….anche quando l’Altro non ha, non può avere, il peso delicato di una farfalla….
Io sono foglia
Vorrei semplicemente riprendere un’intervista rilasciata da Angelo Mozzillo, autore di questo albo illustrato, insieme a questa straordinaria illustratrice,
Marianna Balducci: “Quello in cui ho scritto ‘Io sono foglia’ è stato per me un periodo delicato…ho provato allora ad inserire la mia vulnerabilità in una piccola storia, capace – per quanto possibile – di essere universale. Ma questo libro prova a rappresentare, su tutti, i bambini: in una fase così ancora poco definita della loro esistenza, si trovano spesso nella condizione di fare e disfare, dire e poi rimangiare, essere aperti al mondo e a tratti aver paura di affrontarlo… L’autore ci sta dicendo, di fatto, che quel che vale per il bambino, vale – in determinate circostanze dell’esistenza – anche per l’adulto… Così, una foglia si stacca da un ramo e può iniziare a trasportare e farsi trasportare con le parole e con un bambino con la maglietta a righe, diventando una moltitudine di possibilità: deltaplano, chitarra, culla, ombrello, veliero… per finire con l’antropomorfizzarsi – o forse è il bambino a fogliarsi? Entrambi, si sanno fare dritti, poi curvi, poi accartocciati, poi distesi e aperti… Una pagina dopo l’altra, foglia e bambino diventano tutto, e tutto quello che ancora non c’è e potrebbe essere – il potenziale di cui parlava Calvino…
Infine – a forza di inventare e sperimentare ruoli e possibilità – nell’ultima pagina, solo nell’ultima pagina, compare un altro elemento, non inventato, non disegnato, ma reale, e come la foglia fotografato: il ramo, a cui la foglia torna a legarsi, e in cui il bambino-foglia può annidarsi…
Possiamo sognare il ramo come la funzione, protettiva ma delicata e capace di rispetto, dell’adulto? Io penso di si, e mi piace concludere con questa
immagine e queste parole “Un giorno sarò foglia, se un giorno sarai ramo”, cioè: “Se nelle mie esplorazioni, nelle mie scorribande di bambino che sogna sogni impossibili alla Murdo, che gira il mondo con uno sguardo ladro, che immagina storie che non esistono ancora…se in qualche momento avrò
bisogno di una mente che mi accoglie, che contiene e bonifica le mie paure, quando queste si fanno troppo grandi… bene, so che la troverò.”
È la mente-ramo dell’adulto, quando è capace di risuonare senza invadere e intasare, mettendosi in sintonia e autenticamente a disposizione della mente del bambino. Non dimenticando, l’adulto, il suo essere stato – e rimanere pur sempre, a sua volta – foglia… Cioè, bambino.