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Pandemic fatigue

Siamo sotto la pressione di un allarme sanitario mondiale che ci ha colto impreparati e che richiede a tutti noi di attivare funzioni adattive mature per fronteggiarlo. Senza dubbio il momento storico che stiamo attraversando affronta emergenze su molti, troppi fronti: umanitario, ambientale, sociale, politico… Su questa complessità si innesta anche l’emergenza sanitaria che – in una società globalizzata – si è diffusa in pochissimo tempo su tutto il pianeta senza darci modo di attrezzarci.

Ecco che il flusso di problematicità da dover gestire soverchia le capacità di assorbimento di un’umanità che ha imparato troppo spesso a gestire l’angoscia attraverso modalità difensive quali la negazione, l’indifferenza, la minimizzazione dell’evento, cioè cercando tutti i modi possibili per evitarla e così si trova impreparata. L’ Organizzazione Mondiale della Sanità ci assicura che la ‘Sensazione naturale di stanchezza e sfinimento dovuta ad uno stato di crisi prolungata’, la “pandemic fatigue”, non è condizione patologica.

Ma anche la normale reattività agli eventi deve essere osservata con attenzione e ha necessità di trovare canali trasformativi che non rendano ‘cronica’ una reazione, perché in tal caso non sarebbe più “normale”. Nel mondo globalizzato, ruoli standardizzati scandiscono la vita e tendono a determinare la nostra immagine e il nostro senso di adeguatezza/inadeguatezza. Gli input sociali non ci aiutano a diventare consapevoli e non atterriti del nostro essere creature colme di potenzialità, ma anche fragili, limitate e mortali. Le potenzialità spesso vengono mortificate perché lo sviluppo che si fonda sull’etica della responsabilità, renderebbe gli individui capaci di pensiero autonomo e quindi non sempre idonei ad appartenenze supinamente ubbidienti.

Il nostro Io così cresce indebolito e bisognoso di costanti conferme del suo valore e del suo diritto ad esistere. Conferme cercate prevalentemente nel mondo variegato dei ‘risultati’, delle evidenze socialmente riconosciute ‘di successo’ piuttosto che nei legami profondi e affettivi costruiti in una dimensione di scambio e di ascolto reciproco. Ecco che l’apparire, l’avere consenso sociale – alle volte presunto come i like di FB – prende campo e diventa ciò che dovrebbe dare senso e valore al nostro esistere. Un quadro di questo tipo, certamente evidenzia una profonda fragilità nel costrutto di fondo del tessuto sociale e delle singole individualità: idea del benessere legata al possedere beni, mito della giovinezza ad oltranza, ‘tutto subito’ come possibile illusione, rendono l’uomo non sufficientemente attrezzato ad affrontare le grandi paure che questi input hanno celato: isolamento, incertezza del futuro, morte.

Una pandemia planetaria che si infiltra nella vita di tutti, e tutti mette potentemente e oscuramente in pericolo, certamente è esperienza pesante e difficile e quindi è ‘naturale’ essere ‘stanchi e sfiniti’. Che fare? Possiamo provare ad ‘apprendere dall’esperienza’ come suggerisce Bion e utilizzare il trauma per progredire nel nostro sviluppo. Certo può sembrare una prospettiva paradossale, ma in fondo i grandi cambiamenti sono quasi sempre determinati da una spinta vitale dell’umanità messa al servizio della ‘ricostruzione’ dopo un evento traumatico.

Quali possono essere le fragilità emotive su cui più pesa la situazione pandemica? Vediamo gli elementi emotivamente delicati che va a toccare. Per la prima volta la globalizzazione non ci espone solo ad una omogeneizzazione di abitudini del quotidiano relative ai normali ritmi di vita, ma drammaticamente ci comunica che questo pianeta, proprio perché più ‘vicino’ e raggiungibile, espone senza possibili ‘porte tagliafuoco’ ad una contaminazione globale che in brevissimo tempo si diffonde a macchia d’olio, a cui non sappiamo mettere argini.

Quello che immaginavamo un progresso chiede il suo tributo e ci disorienta. Il distanziamento sociale, l’isolamento forzato e prolungato sembrano le poche risorse efficaci per opporre una barriera alla contaminazione. Ci disponiamo più o meno solerti ad attivare queste misure, ma il costo in termini emotivi è alto.

L’’Altro’ con cui già dalla vita intrauterina abbiamo intrecciato una danza di scambi neurobiologici, emotivi, gestuali, l’altro che ci ha permesso di costruire una nostra immagine del mondo e di noi nel mondo, improvvisamente non può più essere ‘solo’ specchio di nostri desideri e paure con cui intrecciare un dialogo continuo in una cornice ambientale di accettabile sicurezza.

Il fisiologico ritmo alternato tra paura e desiderio del contatto, tra vicinanza e fuga, tra dipendenza e autonomia degli affetti, attraverso cui intessiamo il nostro esistere complesso e variegato, viene inquinato e reso confuso dalle nuove paure ‘ambientali’

L’Altro diventa ‘oggettivamente’ portatore di un pericolo di contaminazione virale e noi per lui. Si attiva cioè una reciprocità degli scambi, ma in senso negativo e pericoloso. Il sospetto si insinua e scalza la fiducia, il pericolo di morte diventa tangibile e non siamo preparati, perché la nostra condizione di mortali non è tema da società globalizzata. La pensabilità rispetto al morire l’avevamo drasticamente ridotta facendo sempre più di questa esperienza umana un evento tenuto ai margini del sociale e ora che davvero il virus costringe ad una morte senza conforto di vicinanza, questo acuisce il nostro terrore e l’umano dolore.

Siamo spaventati. La nostra baldanzosa onnipotenza si sgretola.

Siamo esseri relazionali, nasciamo nella relazione, di relazioni non riuscite ci ammaliamo, relazioni riparative e ricostruttive ci restituiscono l’accesso alla creatività, al piacere, alla vita.

Lo sfinimento emotivo- la pandemic fatigue- di cui siamo portatori e a cui dobbiamo trovare ‘drenaggio’ è fortemente alimentato dalla rivoluzione imposta dall’emergenza sanitaria: la semplice gestualità del contatto fisico, della ‘pacca sulla spalla’ in segno di condivisione, una volta inibita mostra quanto era importante come ‘sincronizzazione emotiva’, come possibilità semplice di mettersi almeno per un attimo ‘nei panni dell’altro’. Segno di una vicinanza senza invasione intrusiva, conforta e può proteggere dall’abisso dell’isolamento totale.

Non potendo più, almeno in questo tempo pandemico, utilizzare la gestualità come segno di vicinanza, saranno gli sguardi, la modulazione della voce, il tentativo di superare la distanza fisica per raggiungere e farsi raggiungere, ma è un linguaggio da imparare e da riscoprire.

Le forti limitazioni a quella che ritenevamo una quotidianità scontata e garantita ci aiutano/costringono a prendere atto della relatività di ciò che chiamiamo ‘normalità’ e di quanto dobbiamo essere capaci di plasticità e adattamento.

I legami tra esseri viventi –non solo tra umani- sono ciò che costituisce il tessuto in cui possiamo crescere e sviluppare il nostro esistere oppure rimanere intrappolati e soffocati. La paura della morte non ha come suo contrario il desiderio della morte ma l’amore per la vita, ‘quel tenace bisogno di vivere che resiste a tante prove, anche a quella dell’isolamento, che è la più temibile e temuta’(M.Augè )

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