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Psicoanalisi e Montagna: sognare percorsi

Scrivendo di intrecci tra l’amore per la montagna e la passione per il mestiere di psicoanalista, proverò a non scivolare troppo nella trappola insidiosa della ricerca di analogie tra il misticismo dell’altezza e la dimensione estetica della cura psichica attraverso la parola. Come psicoanalista e come appassionata di montagna, vorrei semplicemente raccontare come l’esperienza nel campo della cura psicologica proceda insieme al mio interesse di sempre per due modi di vivere la montagna: il camminare, e la pratica verticale dell’alpinismo.

Perché camminare in montagna ha così tanto a che fare con il lavoro psicoanalitico?

Non ho trovato descrizioni migliori e più suggestive di quella offerta da Erling Kagge, il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria: «Se vai verso una montagna in macchina e lasci che i laghetti, le colline, le pietre, il muschio e gli alberi ti sfreccino accanto, la vita si fa più corta. Non puoi sentire il vento, gli odori, il tempo atmosferico o i cambiamenti di luce. I piedi non ti fanno male. Tutto si amalgama. Quando aumenti il ritmo, non è solo il tempo a ridursi, ma anche la percezione dello spazio. A un tratto, sei già alle pendici della montagna.

Viene meno l’esperienza della distanza. Una volta arrivato, la sensazione può essere quella di aver colto molte cose. Ma io ne dubito. Se quello stesso tratto lo percorri a piedi e ci metti un giorno invece di mezz’ora, allora respiri con più calma, ascolti, senti il terreno sotto i piedi e la giornata diventa tutt’ altra cosa. La montagna cresce gradualmente e l’ambiente circostante sembra diventare più grande. Fare conoscenza con le cose che ti circondano richiede tempo. (…) la vita dura di più, quando cammini. Camminare dilata ogni attimo».

Il tempo dilatato della camminata e della terapia

La montagna, come il viaggio psicoanalitico, richiede necessariamente spazio e tempi lunghi, percepiti e sperimentati davvero come dilatati. Certo: come per la montagna si sono trasformati nel tempo tecnologia e attrezzature, strategie di allenamento, conoscenze sempre più accurate di meteorologia, così anche per quanto riguarda il nostro mestiere c’è stata un’evoluzione del pensiero psicoanalitico, e nel tempo si è trasformata la tecnica ma, come le montagne sono sempre le stesse, sono alte uguali, e il dislivello da superare è sempre lo stesso, così nella stanza d’analisi le tappe non si possono accorciare, né accelerare.

C’è un ulteriore aspetto importante, dal mio punto di vista, che riguarda il camminare ovvero quanto questa attività metta di fronte al mondo per ciò che è – al Caso, all’Imprevisto. Il camminare in montagna trabocca di direzioni, incontri, stupori, impressioni; andare in montagna è sempre stato, per me, “andare a fare una camminata”, e mi piace di più chiamarla camminata piuttosto che pensarla escursione: camminata ha un sapore senza tempo, il senso di una fatica antica. Così come preferisco pensare alla persona che cammina in montagna come ad un incamminato, piuttosto che ad un escursionista.

È altrettanto importante sognare una montagna, oltre che salirla.

Gaston Rébuffat (alpinista marsigliese)

Penso, allora, allo psicoterapeuta e al paziente come a due incamminati, messi entrambi di fronte al Caso, da percorrere ed esplorare insieme. Entrambi – con le debite differenze di ruolo, perché intatta resta la funzione del terapeuta quale responsabile della cura, di guida sul percorso – sono in viaggio, immersi in un vagabondaggio nel labirinto psichico, abitato da figure disparate e incongrue, dalle più amabili alle più inquietanti. Penso, allora, al camminare descritto da Robert Walser, nel suo piccolo, perfetto racconto La passeggiata: «Lei non crederà possibile che in una placida passeggiata io mi imbatta in giganti, incontri professori, visiti librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi
azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

Il camminare libero e i sogni dei pazienti

Davvero, la descrizione più poetica del camminare libero che sovverte schemi prestabiliti, e che tanto ricorda i sogni che i pazienti ci raccontano – trame bislacche, attraversate da spostamenti improvvisi, cambi di direzione, scarti temporali bizzarri…. Portando il sogno in seduta, il paziente lo ri-sogna con noi: i personaggi che abitano il suo inconscio incontrano i personaggi che abitano la mente del terapeuta e danno vita a nuovi personaggi, prodotti dalla mente di entrambi, e che ora animeranno la seduta.
Questi nuovi personaggi li immagino un po’ come gli ometti di pietra, quelle piccole creature fatte di sassi accatastati, messe a segnalare il cammino in montagna, ad orientare la direzione sul sentiero, ma senza obbligarla: costruzioni di incamminati, in mezzo al Caso. Gli ometti, che hanno una loro semplice e rassicurante bellezza, forse hanno anche a che fare con il bagaglio formativo del terapeuta: è auspicabile che, come una guida alpina, l’analista abbia già percorso gli stessi sentieri, o percorsi simili, e ne sappia riconoscere la bellezza e le insidie. È necessaria una dura e impegnativa formazione continua, in
montagna come in psicoanalisi.

Alpinismo e psicoanalisi: l’incontro con il segreto

L’alpinismo non è una camminata: il percorso psicoanalitico non è solo una camminata, e può essere visto anche nella prospettiva della pratica verticale della montagna. In questo momento, allora, non pensiamo all’incontro con un Caso pronto a sorprenderci mentre camminiamo in salita: l’alpinismo è un procedere per atti di forza e concentrazione. Sappiamo quanto intorno alla conquista della vetta sia fiorita e proliferata tanta retorica: mi sembra molto più interessante, invece, la prospettiva della relazione – tra uomo e parete di roccia, e tra compagni che salgono insieme in cordata.
Penso all’alpinista che sale piano, assorbito nel silenzio del proprio gesto, che ripete infinite volte: raggiunge l’appiglio sulla roccia con le dita della mano – spesso proprio in punta di dita – spinge il corpo in alto, quindi ancoraggio al chiodo in parete, ricerca di un nuovo appiglio, nuova spinta….un perseverare inarrestabile, in cui l’alpinista si fonde e si perde nel suo stesso gesto. Gesto che lo tiene in contatto profondo con sé stesso, con il suo modo interno, e nello stesso tempo lo immerge nel mondo, e nella roccia.

Esposizione e radicamento: le tracce sulla parete-psiche

In modo non diverso funziona il percorso psicoanalitico, nel mettere profondamente in contatto con il proprio mondo interno e, nello stesso tempo, immergere nell’incontro con l’Altro. Come ha scritto lo psicoanalista e alpinista Andrea Bocchiola, chi arrampica su una parete segna sul corpo della montagna una traccia, e con quel segno la contamina, contaminando per sempre se stesso: niente sarà più uguale a prima.

La traccia è il segno della propria esposizione al contatto con l’aria e il vuoto, e nello stesso tempo è un gesto di radicamento alla roccia. Esposizione e radicamento: le medesime tracce le troviamo nel percorso analitico. Non è lontano dalla decisione dell’alpinista di lasciare la valle e iniziare a salire, la determinazione di intraprendere un percorso psicoterapeutico: tutto prende il via da una spinta interna, una scelta di cui si avverte la necessità. Da questo momento, si avvia un movimento lento e progressivo, che implica una graduale, maggiore comprensione di sé, e dell’altro.


Attraverso il gesto dell’arrampicare, tra esposizione e radicamento continui, la valle si fa sideralmente lontana: in questa prospettiva del tutto nuova, l’alpinista diventa anche altro da sé, diventa montagna e incontra ciò che prima non sapeva, sperimentando l’estraneità.
La psicoanalisi, come l’alpinismo, consente l’incontro con tutto quel che è rimasto segreto: l’estraneo che ci perturba, mettendoci in contatto con aspetti di noi sconosciuti, inquietanti, scomodi. Ma che, nel momento in cui li incontriamo ripetute volte nel viaggio psicoanalitico, possono farsi familiari, e talvolta avvertiti come dotati di una loro struggente bellezza. Il rimosso perturbante torna riaffiorare, e noi torniamo a dargli ospitalità. Riconosciamo noi stessi al di fuori di noi, e scopriamo – come scriveva Freud – di non essere davvero padroni in casa nostra, perché l’Io cosciente – quello che sceso dalla vetta o uscito dalla stanza d’analisi torna a casa per cena – è solo la minuscola punta dell’iceberg della personalità intera.

L’importanza della corda e del compagno di cordata

Si conosce e si impara facendo strada, ed è necessario portare con sé una corda, in montagna come in psicoanalisi. Si sceglie – in analisi e in alpinismo – un compagno di viaggio al quale legarsi con una corda auspicabilmente di buona qualità e tenuta: un altro da sé che aiuti a portare a termine il progetto – arrivando in vetta e poi tornando a valle, o concludendo la terapia. Secondo un tracciato nuovo e unico, fatto anche di scelte improvvise, cambiamenti di rotta o libere interpretazioni dei passaggi che la montagna, che i fatti della vita, possono imporre.

E poi lo stupore, una volta giunti in vetta, guardando la valle giù in basso: uno scenario familiare e riconoscibile, ma nello stesso tempo reso nuovo dalla distanza e dalla fatica provata. Per quanto riguarda la conclusione della terapia, sarà uno sguardo rinnovato dalla presa di distanza rispetto ad un sistema di meccanismi di difesa che per tanto tempo è stato necessario utilizzare, ad oltranza. Ma ora- si scopre con meraviglia – questo pesante zaino non è più indispensabile, per sopravvivere. Si può procedere più leggeri.

Però la meta conquistata è apparente: dopo ogni vetta raggiunta si torna a valle, e ci saranno nuove cime da sognare. La via tracciata sulla parete della montagna è un transito, e transitoria è l’esperienza emotiva offerta dal percorso analitico. Di fatto – parafrasando il titolo del libro sul suo viaggio in Himalaya, di Paolo Cognetti – viaggiamo, tutti, senza mai arrivare in cima. Pronti a rotolare sulle pagine di storie ancora tutte, o quasi, da narrare…

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